martedì 23 ottobre 2012

Il Gruppo di Lettura BC su Menzogna e sortilegio di E. Morante

Un interessante ed articolato contributo di Paolo Pedrazzoli sulle riflessioni del Gruppo di Lettura BC sul libro Menzogna e sortilegio di Elsa Morante.

Riporto in breve i commenti dei partecipanti al Gruppo di Lettura; preceduti da una annotazione: tali contributi, per la loro immediatezza, vivacità spontanea e acuta penetrazione di quanto è essenziale del testo, hanno risvegliato prontamente l’attenzione e promosso la partecipazione di tutti alla discussione; rimuovendo quella patina un poco polverosa e quella sensazione di fatica che la lettura di un romanzo di tanto pregio, ma anche di tanta mole e di tanta violenza emotiva, aveva generato. Mi permetto alcune sottolineature, che sono i punti sui quali ho avvertito una grande sollecitazione e che riutilizzerò più avanti, nella presentazione anche di un mio piccolo contributo, mutuato proprio dalle suggestioni di tale “intreccio interattivo”.


La sintetica introduzione di Gabriele Cagnoli inquadra il testo e fornisce stimolanti note sull’Autrice:

· Elsa Morante è stata moglie di Alberto Moravia dal 1941 (dopo alcuni anni se ne separò, senza tuttavia divorziare mai); il libro fu scritto tra il ‘44 e ‘46, in una casa di due locali: Elsa lo componeva in uno, mentre Moravia nell’altro scriveva “La Romana”. Fu pubblicato nel 1948. Elsa ha prodotti diversi libri; questo è il suo primo ed è considerato il suo capolavoro. Capolavoro, modello di scrittura, lingua ricca di barocchismi, termini ormai poco usati, di grande efficacia. E’ scritto nell’epoca del neorealismo, ma è molto diverso dai suoi coevi, per stile e per contenuti. Questa frase vale già una presentazione: “mia madre fu una santa, … mia zia profetessa … maschere di futili tragedie”; dà il quadro di tutta l’architettura del romanzo. Si conclude con una poesia dedicata ad un gatto, anche questa fornisce l’idea della diversità della scrittrice.
Immediati i primi commenti (mi scuseranno tutti i partecipanti se non citerò i loro nomi):

· Libro molto costruito a tavolino, progettato su impianto ottocentesco con contenuti nuovi. È libro al femminile, in cui le figure maschili stanno in secondo piano. Tentativo di uscire dalla menzogna  non riuscito.
· Non lo conoscevo, ma ero incuriosita dal titolo. È un libro al femminile: ma le donne non sono le vere protagoniste; si tratta di figure negative, quasi da non crederle reali; Rosaria è l’unica libera dal sortilegio. Anche le figure maschili appaiono negative; ma non sono secondarie rispetto alle donne e sono le più umane (Teodoro e Francesco). Sono meravigliata che la scrittrice in un periodo così tragico scrivesse un romanzo ottocentesco; non ha tempo, è indefinito nello spazio; si può pensare a una collocazione in un Sud indefinito.
· Si tratta di una scelta in contrapposizione con mondo neorealista: voleva riproporre valori sentimentali, amore visto come sortilegio negativo.
· La menzogna, il fatto di vivere in modo non reale, lo rende attuale perché oggi ci si immedesima con personaggi televisivi.
Un interrogativo:

· Mi sono chiesta se tanta negatività in un contesto come quello del 1948 volesse dire: proviamo ad uscire  dalla realtà tragica della guerra parlando di esperienza autobiografica.
Si azzardano un parallelo con le radici della Guerra e altre considerazioni:

· Quando il romanzo viene pubblicato, nel 1948, si è usciti (di già?!) dalla follia della guerra. La Morante (che ha scritto Menzogna e Sortilegio proprio durante il peggior periodo di guerra, quand’essa impregnava ormai di sé la popolazione tutta), non parla direttamente della guerra (la Grande Follia), bensì di Follie Individuali. Piccole, forse insignificanti ma fatali follie. Esse non nascono dal nulla: sarebbero i prodotti di una concatenazione di suggestive piccole menzogne, quali il proporre miti senza curarne il senso, presentare favole che si sostituiscono alla composizione della realtà, suscitare aspettative smisurate approfittando dell’altrui ingenuità, ingigantire a sproporzione normali talenti personali, sottacere o distorcere fatti reali, anteporre fuori luogo e fuori tempo il Desiderio alla Realtà. Tali menzogne, nutrite nel tempo sfociano nella catastrofe: isolamento, sofferenza, deprivazione, relazioni interpersonali infernali, morti premature. Il romanzo ricostruisce tragiche storie “private”: vere e proprie guerre, sostenute da singole persone contro se stesse e, di volta in volta, contro altri o contro la società. Analogamente può accadere a un livello più generale, laddove le grandi bugie, veicolate ad arte nelle ignare (talvolta colluse) popolazioni, generano i mostri. Se il romanzo non parla esplicitamente della guerra, esso sembra tuttavia alludere alle implicazioni sociali delle follie individuali.
Un commento pone l’accento anche sull’esperienza emotiva della lettura:
· Le scelte della Morante sono volute; il linguaggio è faticoso, c’era un bisogno suo di liberarsi dal vissuto doloroso. Mi sembrava di essere risucchiata in un gorgo, avevo bisogno di tirare il fiato. Alessandra è un bel personaggio, serena nelle scelte; Rosaria ha dentro vitalità; gli altri sono personaggi concentrati su se stessi e fanno parte di un mondo allucinante.
L’esperienza del lettore che prova a calarsi “dentro” il racconto trova altri riscontri:

· Il romanzo è bellissimo, ma faticoso. E’ quasi impossibile immedesimarsi nei protagonisti.
· Si tratta di figure lontane, che vivono e inaridiscono in un mondo incernierato e chiuso nella follia (per questo non è facile appassionarci a loro, amarli). È un romanzo costruito bene e alla fine ti ci trovi dentro.
· Ci si può immedesimare nelle figure positive: in Alessandra e Rosaria; esse si prendono cura, amano.
· Anche la “Contessa” sembra provare amore per il figlio, ma non è una figura positiva.
L’analisi dei personaggi e delle situazioni si articola in questa direzione:

· Mi sembra evidente il ruolo difficile e complesso della madre, il tema è: le facce dell’amore.
· Ho fatto molta fatica a leggerlo: menzogna come sinonimo di finzione; è molto diverso da “La Storia” -dove c’è umanità- questo è deprimente; l’unico personaggio positivo è Alessandra; nemmeno Francesco è positivo (tratta assai male la mamma); Rosaria è una  figura solare.
Dalle complessità dei sentimenti e dei vissuti descritti, e dalla risonanza che essi hanno generato nel lettore, emergono altri collegamenti e commenti dei partecipanti. Il seguente introduce anche elementi che tracciano ponti tra letteratura e pittura (altre “facce” ancora):

· E’ un Romanzo nero, pesante, mi fa pensare all’incisione di Goya; ricorda ancora quello più famoso del “Sonno della ragione”.
· Sì, sì…
Altri giudizi e richiami letterari:
· Ritengo il romanzo una presa in giro del ceto borghese, perché esso vive nella menzogna: Mi sembra un melodramma; sono storie esagerate. In questo libro la Morante si può associare alla Ortese.
Non si è tutti d’accordo:

· I principali protagonisti del romanzo sono collocati all’interno del ceto borghese, tuttavia compaiono poverissimi contadini e aristocratici (Concetta, Edoardo). Ho difficoltà ad accettare che tale fenomeno possa avere rilevanza soltanto in determinati strati sociali. Tendo a vederli come fenomeni trasversali. A me sembra che le menzogne e le loro conseguenze riguardino innanzitutto le persone, indipendentemente dalla loro collocazione sociale. Vedo nel romanzo grandi tragedie personali e famigliari; drammi che si consumano nel privato, che si trasmettono da singoli soggetti a interi microgruppi domestici, e contaminano più generazioni.
I commenti si concentrano ora sui personaggi, sulle differenze di genere e di ruolo; ora sugli intenti del romanzo e sulla sua natura autobiografica; ora su alcuni grandi temi: l’incomunicabilità, la speranza:

· Le figure maschili sono più paradossali; Francesco è un personaggio positivo, ma è un po’ paradossale perché non sa reagire. Il clima è pesante, gli uomini sono personaggi deboli; le donne invece hanno un po’ di reazione. Potenza distruttiva delle madri che hanno influito sui figli!
· Mi sembra scritto poeticamente; mi sembra voglia trasmettere malessere interiore, quasi voglia dirlo all’altro a Moravia; perché questo vuoto sembra costruito a tavolino; bellezza letteraria; ad un certo punto mi sembrava che il romanzo fosse nato da una stanza all’altra. Ma pare un dialogo fra sordi. La Morante scrive una cosa estrema per risvegliare qualche cosa.
· Il romanzo parla di esistenze che non comunicano, sono isolate. Elisa/Elsa che non riesce spontaneamente a parlare agli altri, usa la scrittura.  In questo senso è un romanzo autobiografico.
· Alla fine del libro c’è speranza: Elisa attraverso la scrittura può riprendere il contatto; ma poi c’è il gatto, il paradosso
· La morte di Francesco è qualche cosa di reale, momento di vita concreta.
· La scelta del titolo è indicativa; molto belli sono anche i sottotitoli dei capitoli, molto evocativi.

(Ne rammento alcuni: “Santi, Sultani e Gran Capitani sono in camera mia”, “Mia nonna fa un matrimonio di interesse”, “Il cugino recita versi oscuri”, “Entra in scena il butterato. Incominciano le sue millanterie”, “Un ritrovo mal frequentato”, “Donne scontente, donne maligne e donne gelose”, “Mia madre fa un matrimonio di interessi”).
Ciò che mi sembra ricorrere nella nostra discussione attiene l’impatto del romanzo sulle emozioni del lettore;
come ad esempio una presa di distanza:

· Mi ha affascinato come scrittura, non come storia.
un vissuto di forte partecipazione:

· Il libro non ha respiro.
un motivo per entrare in sintonia con il testo:

· E’ un libro profondo: con una sensibilità straordinaria, vi è descritto in dettaglio il vissuto personalissimo dei vari protagonisti. Laddove i fatti sembrano del tutto banali prorompono i sentimenti ed emergono i processi mentali che da quei fatti conseguono, o che a essi conducono con sviluppi peculiari (non certo sorprendenti dati l’incipit del testo  -vedi l’introduzione: “mia madre era una santa…”,“mia nonna fa un matrimonio di interesse”, etc.). Si tratta di malesseri profondi e radicali, che conducono oltre quella sofferenza che abitualmente si ascrive alla conflittualità  nevrotica. Può essere letto come trattato di psicopatologia; eccellente. Al di là della natura autobiografica o meno del romanzo,  si scorge in esso una rara capacità introspettiva dell’Autrice; maestra davvero nell’indagare l’interiorità.
                                                   
                                                        *   *   *          
          Care/i amiche/i d’avventura: se da un romanzo nascono così tante idee e voglia di confrontarle con gli altri…abbiamo trovato davvero un piccolo angolo (la Lettura, intendo) e una preziosa occasione (il Gruppo) per sviluppare collettivamente un sereno momento di piacere e un piccolo impegno culturale.

          Esaurito il breve compito (ma di gran lunga più importante) di trascrivere alcuni appunti della nostra recente riunione (peraltro su annotazioni già bell’e fatte del nostro chairmen Paolo Testori), mi prendo la responsabilità delle brevi note che seguono. Accettatele per quel che valgono e che desiderano essere: come già ebbi a dire, una sorta di “esercitazione” personale, atta a continuare il nostro vivo dialogo. Avverto da subito il lettore che si tratta di suggestioni tratte dalle mie prime reazioni alla lettura e poco confrontate col testo; per niente analitiche, dunque e non sufficientemente meditate; impressionistiche. Come tali non hanno alcuna pretesa di parlare precisamente di Menzogna e Sortilegio; espongono, più banalmente, un vissuto suscitato dal testo e alcuni pensieri che da esso scaturiscono in libertà –quella libertà e quella tolleranza che avverto con tanto piacere nel breve tempo delle nostre riunioni “letterarie”.
          Detto in breve, il romanzo accenna a un contesto ambientale, antropologico e culturale complessi; mostra una realtà articolata in strati sociali che si vanno intrecciando. Entra con assoluta maestria negli aspetti dell’interiorità. Tocca il tema delle inquietanti valenze dell’amore materno (i protagonisti del racconto hanno alle loro spalle madri che non credo esagerato definire responsabili –non intendo colpevoli- di un’educazione mal riuscita o addirittura perversa: l’una evocando false ascendenze, l’altra incarnando con le sue condotte l’orrenda, gelida, egoistica vanità; un’altra ancora esercitando la tenera tirannia di un narcisismo tossico, portato alle estreme conseguenze). Stigmatizza l’assenza di ruoli paterni adeguati, senza tralasciare il peso delle fatalità. Tocca le difficili questioni dell’educazione dei figli e della loro preparazione alla vita; in ciò mostrando gli sviluppi più mostruosi delle corruzioni della mente. Mentre ne mostra le sofferenze, evita di interrogarsi sulle responsabilità soggettive di ciascuno, ma si concede qualche dubbio a riguardo dell’autenticità della stessa intera vicenda. Entra con arte sottile ed esperta nell’intricato sistema delle relazioni interpersonali. Presenta, con descrizioni magistrali, le concatenazioni e gli effetti di tutto ciò. Il titolo stesso del romanzo ne definisce con esattezza il nocciolo centrale: si parla di avvenimenti diabolici. Provo a ragionare su alcuni aspetti di esso che hanno sollecitato in me sentimenti contrastanti.

          Com’è stato da più parti evidenziato, questo romanzo (pregevolissimo e raro, nel genere) appare lento e faticoso. Tento di identificare qualche ragione di ciò.

          La prima è data dalle magre e poco incalzanti vicende narrate, dalla diluizione degli avvenimenti, dalla rarità dei dialoghi, dalla mancanza di sorprendenti sviluppi. Vi si leggono interminabili pagine che s’intrattengono invece, ritornano e insistono sugli stati d’animo dei protagonisti, sui loro pensieri, sulle loro fantasticherie, sulle loro introspezioni. Proprio questa insistenza, questa minuziosa esposizione del vissuto profondo di ciascun personaggio, del suo pensare, del suo rimuginare incessante, induce un ristagno, sottrae tensione agli avvenimenti; i quali, allorché compaiono, si ritrovano in fondo già annunciati, quali premesse in quelle articolazioni mentali, in quei rovelli. In ragione di ciò, il lettore si sente chiamato a uno sforzo, sottoposto a una fatica e a un ritmo poco sostenibili; viene costretto a immergere tutto se stesso nella lettura, isolandosi per mantenere la concentrazione. Lo ritroviamo alla stregua della protagonista narrante: sepolto, consumato, straniero (“…in questa cameretta io ho consumata, quasi sepolta, la maggior parte del tempo…In compagnia dei miei libri e di me stessa, come un monaco meditativo: straniera a tutto quanto avveniva nelle prossime stanze, priva d’ogni società…”).

          Un’altra ragione credo risieda nel contenuto particolare del romanzo; e sembra deciderne la sorte. Esso, infatti, è uno studio dettagliato, lento, minuzioso, profondo sin nei minimi dettagli e senza deroghe, dei suoi personaggi. Entro i quali la Morante scava inesorabile, presentandoci il loro segreto e progressivo declino esistenziale. Sono vittime, e in parte artefici essi stessi, di una mania generalizzata, di una debolezza, tanto umana quanto disumanizzante, che delega ad altri l’uso della ragione, trattenendo invece per sé la mera illusione, coltivando il mito, accarezzando –sino alla follia- il piacere della fabulazione e del sogno. Da tale scavo archeologico il romanzo diviene allora un racconto duro, che narra una catastrofe; lascia trasparire il sorgere e poi stigmatizza il disperdersi dell’umana vitalità, il venir meno di tante promesse, lo spegnersi delle speranze (“la fine di qualsiasi speranza quando mia madre morì”).

          Menzogna e sortilegio, sin dall’introduzione, si presenta spietato annunciando una morte (“la mia sola amica e protettrice è morta”), descrivendo una solitudine (“nessuno sale più a questo vecchio appartamento”) e preannunciando un’eredità disastrosa (“io sussulto…e poi, quando mi riconosco, resto immobile a fissare me stessa, come se mirassi una medusa”). Con le parole di Elisa, protagonista narrante, poche pagine più avanti il racconto indica la strada per la quale la storia assume il carattere della tragedia: “fui visitata da spiriti stravaganti e perversi, e accerchiata da vapori lunari…divenni una sorta di monaca romita, indemoniata e pazza”. Non si tratta di un cambiamento improvviso, bensì inscritto nelle trame di un lungo processo (“…ciò fu l’eredità lasciatami dai miei genitori”) e di un’eredità antica (si parlerà della nonna materna e di altri nonni); un’eredità che, con l’avanzare del racconto, verrà sostanziata nel tratto caratteristico e diffuso della menzogna. La proliferazione di fantasticherie (o l’attitudine al millantato credito, o, ancora, la propensione a dire a se stessi bugie) sembra proprio trasferirsi, quale tara ereditaria, anche in lei e diviene il fatto più importante e centrale del racconto; ciò che, a mio avviso, lo rende tanto pregnante. Tutto quanto accade in seguito alla prima menzogna diviene successivamente modello per un susseguirsi inarrestabile di pensieri in libertà, che conducono alla costruzione di castelli in aria e alla progressiva, orribile, rinuncia all’incontro con le cose del mondo reale. Tanto più quanto si tratti di una mente sprovveduta o infantile, portata ad accettare dentro di sé tutto quanto comporti meraviglia ed eccitazione (così si esprime Elisa: “…e, come avviene ai popoli senza storia, su questa leggenda io mi esalto”).

          Prendono così avvio produzioni della mente, concatenazioni barocche di struttura complessa (e raffinata), di contenuto via via sempre più insolito e strano; sorprendenti e sempre più lontane dal senso comune, bizzarre, inaccettabili. Ciò che ritroviamo in Elisa, appartiene già a quasi tutti gli altri protagonisti del racconto, i quali rivelano via via tutt’altro che ricchezza, creatività positiva, gioia di vivere, interesse per l’altro. Sono, viceversa, personaggi contaminati dalla menzogna; aridi ospiti di fantasticherie ingenerose, di sogni egoistici, di progetti grandiosi, di proliferazioni inarrestabili e vieppiù irrealistiche. La loro vita, i loro gesti, il tenore delle loro relazioni interpersonali esibiscono desideri infantili, capricci e ambizioni mai confrontate con il mondo delle possibilità reali. Nel procedere lento, e talvolta tedioso, il racconto avanza esponendo reiterati rovelli eidetici, misteriosi e aggrovigliati pensieri, mostrando davvero poco frequentabili grumi di passioni e progressivi cedimenti, evidenziando il lento, inesorabile disfacimento di qualsivoglia progetto esistenziale. Una storia, dunque, che si appesantisce e si consuma in un quasi scontato succedersi di eventi tragici. Si finisce per esserne un po’ nauseati. L’atmosfera suscitata dal testo è terribilmente monotona e soffocante; il clima dominante, già intonato alla depressione, diviene cupo. A tal punto il lettore si sente allontanato, anziché avvinto. Abbandonare la lettura, diviene una tentazione ricorrente.

          E invece può accadere che il progetto dell’Autrice abbia la meglio: la profondità con la quale il suo lavoro scava dentro le vite, la sensibilità dedicata a cogliere le emozioni, il realismo entro cui architetta la trama, la coerenza di tante pagine, anziché allontanare il lettore lo trascina con ineguagliabile destrezza entro la più diretta conoscenza dell’animo umano. La forza e la profondità delle introspezioni, la loro pregnanza emotiva, sono in grado di portarlo a immedesimarsi nella vita intima di ciascun personaggio; gli propongono un’esperienza e gli forniscono attraverso di essa un sapere autentico, non meramente razionale, non intellettualistico, bensì maturato da movimenti interiori di tipo identificatorio. Il racconto cessa, allora, di apparire faticoso e asfittico. La sua lettura diviene, viceversa, fonte  di piacere e di arricchimento personale.

          Orbene, se prima ne denunciavo la gravosità -si tratta pur sempre di una lettura inquietante- sottolineo invece ora il grande pregio del romanzo. Anche se continuo a riconoscere come esso possa creare, prima di un timido affiorante interesse, non poco disagio: l’ho avvertito personalmente, l’ho rilevato durante la nostra discussione, lo raccolgo dalla preziosa segnalazione che Franca Balzarotti mi ha gentilmente fatto pervenire. Eccola: Ho letto MS, romanzo di Elsa Morante, elogio la scrittura letteraria poetica e raffinata, forse troppo elaborata per una narrazione poco coinvolgente e per niente stimolante. Convinta che la scrittrice volesse lasciare una sua traccia, mi sono permessa una mia riflessione. Elsa Morante descriveva la sua difficoltà di comunicazione, quindi una non appartenenza, come i personaggi del romanzo, presenti fisicamente ma aridi di sentimenti e di stimoli, la linfa della stessa vita. Chiusi in una camera, forse priva di finestre. La stessa dove veniva scritto il libro MS. L’incomunicabilità non attrae, ma, se colta, fa riflettere.

          Appare ben giustificato il timore di identificarsi troppo con una vicenda sconcertante, con personaggi dei quali si mettono in evidenza la povertà d’animo, l’inanità e il progressivo decadimento di ogni potenziale virtù. Questo confrontarsi con idee che s’inoltrano nei meandri di un ragionare ingenuo, a volte becero, al contempo comune e troppo estraneo, sembra fatta a bell’apposta per apparire costrittivo e per dissuadere. Ciononostante la colta destrezza con la quale sono studiati e la forza espressiva di quei raccontati sentimenti –linfa della stessa vita- testimoniano la sapienza antica che sta alla base del romanzo e ne caldeggiano una rilettura.
            Quella “incomunicabilità colta” fa “riflettere”; guida il lettore all’interno di logiche che disvelano una qualche ragione e una molteplice, complessa origine; lo conduce a scoprire sentimenti, sentire la legittimità e la pregnanza di quelle passioni amorose; lo porta a capire (ad accettare empaticamente) le emozioni primitive, il senso di pensieri amorevoli o densi di ostilità, le ragioni delle cupe atmosfere o dei dissennati sprazzi di (il)libertà e l’origine di talune reazioni (contro)aggressive. Quelle che prima apparivano nella descrizione dei protagonisti arroganti posizioni personali, meschine “fisse”, aspirazioni ambiziose e stolide, gesta cariche di villania, atti di disprezzo, autocelebrazioni bizzarre, deliri e, infine, Morte del Pensiero e delle Emozioni che danno Vita, ora (alla luce di una riflessione desiderante) possono assumere anche altre, più complesse valenze.  Ciò che avvia a tenere il lettore inchiodato per centinaia di pagine a bizzarri personaggi che vivono fuori dalla realtà, che credono di sostituire con i pensieri gli atti o che s’illudono di dominare gli agiti e le relazioni interpersonali mediante la forza del sortilegio (desiderio di un Sé grandioso) è –al contrario di quanto si potrebbe pensare (pura curiosità intellettualistica)- una curiosità umana profonda, un movimento vitale dell’animo, un bisogno imperioso di ritrovare una parte di se stesso nella descrizione dell’altro. È un bisogno che nasce e prende-per-la-gola chi sente di essere parte viva di una comunità a volte sofferente, di una realtà vera, di un’umanità resa fragile dalla complessità del proprio essere, di una società ad alto rischio.

          Un tale, ambiguo, processo di identificazione (che da taluno è stato comprensibilmente –ed io penso provvisoriamente- rigettato), a me pare essere motivo non secondario del grande successo del romanzo; il quale, oltre ad essere un’opera letteraria invidiabile (così mi sembra essere riconosciuto da chi ne ha suggerito la lettura e, assai più di me, ne capisce), ma è un grande saggio dedicato all’interiorità; un coraggioso e riuscito scavo nell’animo dell’Uomo, delle possibili sue relazioni con se stesso e con l’Altro. E come tale, in particolare, può coinvolgere chi lo legge.
Mi sono imbattuto in un saggio di Virginia Wolf (21 gennaio 1931) relativa al suo “The death of the moth”. Ne propongo un piccolo brano. Mi sembra una pagina che viene a proposito; di tema e d’intensità pari a quella del testo su cui stiamo lavorando; meritevole di riflessione. Eccolo: “Mi accorsi che se volevo recensire dei libri, dovevo combattere contro un certo fantasma. E il fantasma era una donna, e quando imparai a conoscerla meglio la chiamai come la protagonista di una famosa poesia, la chiamai l’Angelo del focolare  (...). Era lei che quando scrivevo una recensione si metteva in mezzo tra me e il mio figlio. Era lei che mi angustiava e mi faceva perdere tempo e mi tormentava a tal punto che alla fine la uccisi. Voi che appartenete ad una generazione più giovane e più felice forse non capite che cosa intendo per Angelo del focolare. Proverò a descriverla il più brevemente possibile. Era infinitamente comprensiva. Era estremamente accattivante. Era assolutamente altruista. Eccelleva nelle difficili arti del vivere familiare. Si sacrificava quotidianamente. Se c'era il pollo, lei prendeva l'ala, se c'era uno spiffero ci si sedeva davanti lei, insomma era fatta in modo da non avere mai un pensiero, mai un desiderio per sé, ma preferiva sempre capire e compatire… Mi voltai e l'afferrai per la gola. Feci del mio meglio per ucciderla. La mia giustificazione, se mi avessero trascinata in tribunale, sarebbe stata che avevo agito per legittima difesa. Non l'avessi uccisa, lei avrebbe ucciso me. Avrebbe succhiato la vita dei miei scritti…”.
Torno a Menzogna e sortilegio.

          Ambientato in un contesto più che credibile, nient’affatto surreale o fittizio, ma volutamente un po’ ambiguo; calato in una realtà sociale al contempo precisa e però polimorfa e in movimento; collocato in un tempo sufficientemente vago, si può pensare che il romanzo (per lo meno nella veste in cui io l’ho proposto) suggerisca al lettore di concentrarsi solo sulla vita interiore, segreta, difficilmente comunicabile dei personaggi, scordandosi degli avvenimenti esterni. Come se l’orientamento del racconto, pur non negando l’inevitabile incisività di ogni evento sull’uomo -evento naturale, storico, sociale, politico- invitasse il lettore tuttavia a disinteressarsene, creando un distacco (artificioso) con le cose del mondo; un distacco giustificato dal timore di favorire collegamenti frettolosi, mistificazioni storiografiche, arbitrarie ideologizzazioni. Non sostengo che esso tratti unicamente delle passioni dei suoi protagonisti, a discapito dei loro contatti con il mondo, voglio tuttavia suggerire l’ipotesi che Elsa Morante consideri in una qualche misura fuorvianti scorciatoie le visioni sull’uomo fatte in chiave esclusivamente sociologico/politica/storica, tali da rimuovere, piuttosto che facilitare, la conoscenza più profonda dei problemi (antropologica, psicologica e di tutte le Scienze connesse). Per contro, tale invito a stare all’interno dei personaggi sembra provocatoriamente contenere una trappola: il rischio di un vero e proprio trascinamento dentro il vortice di piccoli avvenimenti e d’infinite contorsioni interiori dei protagonisti, tali da calamitare la nostra attenzione, ridurla a una sorta di stato ipnotico e coartare con ciò la nostra possibilità stessa di fondere il sentire del cuore con il pensare della mente, di tenere assieme la partecipazione al dramma del singolo con la visione dei tratti e dei difetti della società. Avvertiamo addosso grumi di emozioni, siamo presi dentro inenarrabili sofferenze psichiche di personaggi sempre più votati a un’esistenza passiva, invischiata, delirante e parassitaria. Non riusciamo a compiere quel lavoro che Elsa Morante non vuole fare in vece nostra, non ci presenta bell’e scodellato: preferisce portarci a esercitare da noi stessi le nostre competenze per un compito dovuto. E allora proseguiamo -nonostante tutto- la nostra difficile lettura, sopportando la fatica del lavorare e pur intravedendo l’esito triste del romanzo.

          Insomma, mi piace pensare questo: la Morante compie un’operazione diabolica (come diabolici sono i suoi personaggi e il suo Alvaro). Da un lato ci seduce invitandoci a entrare nell’animo dei protagonisti, condividere le loro passioni e sopportare le loro pene: perché solo una comprensione empatica dell’essere può avvicinarci alle verità; poi induce in noi reazioni di stanchezza, di repulsione e virulente moti di rigetto (“è afoso, pedante, arido, chiuso, insopportabilmente prolisso”); infine ci fa scoprire –senza dirlo- i rischi di rimanere avviluppati (come i personaggi del suo romanzo) in un mondo interiore, astratto, isolato, autistico e infine insulso e vano. Dobbiamo riconoscere la maestria con la quale l’Autrice ci conduce dentro e fuori dal centro delle passioni, dei conflitti, delle complessità dell’esistenza umana. Intravvediamo le difficoltà dei percorsi possibili cui essa allude per portarci forse a una migliore e consapevole realizzazione della conoscenza. Ci avvicina così ai processi di costituzione della Persona e ci ricorda la costante ambivalenza con la quale ciascuno intraprende con modalità preriflessive il proprio cammino. Un romanzo altrimenti terribile, che ci porta a visioni fosche, non attenuate dal delizioso commiato “canto per il gatto Alvaro”.
          Un commiato per me alquanto misterioso. Anch’esso rivela e nasconde. Forse lo si può pensare così: dopo tanto ricordare, riflettere, descrivere, testimoniare, interrogarsi sul passato l’Autrice sembra appagata. Fingendo d’aver rinunciato alla propria lucidissima, instancabile, critica ricerca archeologica (“si ripiega la memoria ombrosa d’ogni domanda io voglio riposarmi”), ci ammette ai suoi privilegi del presente: godere della fortuna di possedere un amico: “un personaggio dei più amabili e importanti”.  Da questo essere, Alvaro, che (“per amor?”) fa “nido” tra le sue braccia, lei sembra capace di trarre linfa per sopravvivere al terribile destino cui sembra condannata (dirò che di nuovo oggi tra certi addetti ai lavori si ritiene che “occorrono tre generazioni per fare uno schizofrenico”) e guardare con maggiore serenità al proprio futuro. Riconosce, dunque, e dichiara l’esistenza vera e consolatoria di un Altro-da-Sé. Non è poco. Ma riuscirà la presenza di un gatto a realizzare reciproci e vantaggiosi scambi affettivi e a promuovere davvero l’incontro della piccola e orfana Elisa con il Mondo? Sarà davvero quel felino dalle tante forme (pigro o focoso genio, colomba e gufo, selvaggio in grado di concedere favore, capace di assistere “libero, ingenuo” all’incrinarsi della “tregua solenne”, avvezzo a tollerare “prigione peccato e morte”) a salvarla? O non fornirà piuttosto l’impronta per un’esistenza, comunque sia, segnata dall’artiglio?  La piccola Elisa sembra rivelare e sciogliersi in un sentimento di gratitudine e finalmente avvertire la possibilità di una presenza dentro di sé preziosa, consolatoria; benché ambivalente e forse temibile, purtuttavia incoraggiante: premessa fondamentale per abbandonare la “Fortezza vuota” (Bruno Bettelheim; sull’autismo infantile) e lanciarsi coraggiosamente, forse, tra le Persone vere.
          A conclusione, introduco una breve considerazione a riguardo di un altro personaggio forse altrettanto importante, in quanto al centro di una storia famigliare che mette in luce quel progressivo percorso che rende in qualche caso possibile il processo di distorsione e poi rottura e, infine, disumanizzazione dei rapporti di un essere  umano con se stesso e con il mondo. Addito questo personaggio quale esempio di come la migliore delle intenzioni soggettive, il più fulgido, rispettabile amore, possano trasformarsi in un pericolo reale per chi li offre e per chi li subisce.

          Alessandra è una delle protagoniste, com’è stato sottolineato da diversi commenti “una delle donne che più si prendono cura, amano” (altri hanno segnalato la figura di Rosaria, “al bivio fra l’onestà e il disonore” –dice la Morante), forse la meno negativa –se è in qualche modo lecito usare questa categoria-. La sua vita “era semplice, simile a quella di un animale o di una pianta. Non possedeva nulla; ma, in compenso, era robusta, avvezza al più duro lavoro ed economa…sia che camminasse o cucisse, o governasse le bestie, c’era in lei la nobiltà spontanea degli animali, dei bambini o dei primi abitanti del paradiso”. Nella sua semplicità non si poneva domande, “accettava le costumanze del suo paese, accettava i riti e i simboli della fede ai quali era avvezza fin dall’infanzia…senza chiedersi di tali riti le origini o il significato… l’idea della colpa non aveva radici in lei”. La vicenda del suo matrimonio, della nascita di Francesco, figlio illegittimo, e i successivi sviluppi, è nota ai lettori –motivo per cui non la ripercorro ora. Mi soffermo soltanto su alcuni punti che forse contribuiscono a evidenziare l’organizzazione personologica di Alessandra e le ricadute di essi sulla stessa Alessandra, sul figlio Francesco e sulle vicende che coinvolgeranno altre persone ancora. Condizionato, spero a ragione, dal titolo e dai contenuti che sono riuscito a trarre dal romanzo, segnalo dunque le modalità passive (semplicità, moto istintuale, sottomissione di classe?) e l’assenza in lei di alcun turbamento, di qualche interrogativo (si può parlare di primitiva innocenza?), concernenti il proprio tradimento del marito. “…quasi –sottolinea la Morante- che il peccare con un forestiero fosse altra cosa dal peccare con un sudicio pastore”. Segnalo, ancora con le parole dell’Autrice, che “nella sua folle compiacenza, la donna vedeva, nel vecchio marito, quasi un debitore: parendole, nel pensiero, di concedergli una grazia e un privilegio a dividere con lui quel figlio, che apparteneva a lei sola”. E ancora, l’essere in lei di “un sentimento di arcano riposo e di trionfo, quasi la sorte di generare non fosse toccata a nessun’altra donna prima che a lei”. Infine il fatto che non “le mordeva il pensiero che tale legge naturale (quella che lei aveva sempre vissuto in totale accordo con gli eventi e le stagioni della terra) non fosse, nel suo caso, in pace con le leggi degli uomini e di Dio. Anzi la coscienza di aver concepito il proprio frutto nel delitto accendeva d’orgoglio la sua mente lusingata e rapita. La disobbedienza, il mistero della sua maternità ingrandivano il senso di prodigio e di potere che l’accompagnava adesso ogni giorno; ed ella si compiaceva infantilmente che una tal complicità la legasse fin d’ora al nascituro”. Tutto ciò mi sembra sufficiente per comprendere il terreno -precedente ancora e verosimilmente costitutivo della “mentalità” stessa di lei- entro il quale Alessandra agisce, il suo attaccamento materno a Francesco, i suoi sacrifici per il piccolo -che via via cresce sostenuto dalla sua gelosa generosità-. Vittima di troppa povertà, e incolta, Alessandra entra nel gioco perverso del confronto sociale: guarda a chi possiede di più, ai benestanti, ai ricchi, ai cortigiani e ai furbacchioni. Da essi, anziché da se stessa, dai propri valori e dalla propria esperienza di donna, finisce col trarre esempio e vantaggio. Tale vantaggio –con una buona dose d’inconsapevole masochismo- cerca di trasferire altruisticamente sul proprio unico figlio, unico, incomparabile tesoro. Sfodera dunque l’ambizione e prepara il campo affinché Francesco intraprenda la scalata sociale che lo porterebbe a ciò che lei non ha: la notorietà, il successo, l’agio, l’approvazione sociale. Lo status di Alessandra, le caratteristiche dell’ambiente ove vive e che la circonda, la solitudine emotiva, le antiche cicatrici, l’incultura non la favoriscono. Le sue umilissime origini sono al contempo la sua fortuna e il suo limite: fanno di lei una madre scaltra, ma non illuminata; una leonessa indomita, in grado di tutelare il proprio cucciolo, ma non di nutrire la mente di lui; un rifugio protettivo, un’alcova dentro la quale sostare con ambiguo piacere, ma non potersi emancipare. I veri talenti di Alessandra diventano la passione di una madre esclusiva, il sognare ambizioso, la caparbietà cieca. A essi lei fa appello per costruire il futuro del figlio, collocandolo dentro un progetto accarezzato in troppa solitudine e smisurato. Incolta e ostinata, si rende involontariamente responsabile di un amore eccessivo che, guardando troppo in direzione di se stesso, si riversa ingenuamente sull’amato secondo modalità sproporzionate e in sostanza impure. Sono un’attenzione e un affetto che, dapprima genuini, via via scadono e si corrompono: blandiscono, coltivano segreti, accettano compromessi, generano travisamenti, riproducono ambizioni. Non è il caso di indicare “attenuanti” per Alessandra. Non ve n’è bisogno. È evidente come –ad esempio- l’assenza di un vero compagno, di un’altra mente con la quale ella avrebbe potuto intrecciare un (irrinunciabile) dialogo, fondere e meglio orientare i propri affetti, le aspirazioni proprie e del gruppo famigliare, diventi un elemento in certa misura decisivo nello svolgersi dell’intera vicenda famigliare: Damiano, ormai vecchio, segnato dai lutti, introflesso, a sua volta generoso ma sprovveduto, è troppo intento a calcolare le sue proprietà –non è dunque quell’elemento terzo che interviene nella diade madre/figlio per dare profondità alle intelligenze, per introdurre una prospettiva di separazione e quindi una possibilità emancipativa. Restringendo il mio ragionamento, che è limitato a pochissimi aspetti di quanto il racconto stesso ci dice (sarebbe oltremodo interessante estendere l’analisi dei ruoli paterni al personaggio, reso cieco e masochista, di Francesco; etc.), credo di poter individuare anche in questo punto un ulteriore elemento significativo –tra i mille- della nostra storia.
         
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          Terminate le presenti note mi accorgo che esse non si presentano né rapide, né leggere (principi di calviniana memoria), me ne scuso con i lettori. Credo di essere caduto in un processo di eccessiva identificazione con la Elisa narrante, al punto tale da adottarne un po’ la cadenza. Faccia conto il lettore, per favore, di sottrarre egli il troppo peso alla struttura. In quanto alla rapidità: la soluzione che ho trovato è quella di non entrare abbastanza nel contenuto. E questo è male ancor peggiore.
          Un’ultima cosa: la gentile signora Franca Balzarotti ha avuto la cortesia di scorrere questo scritto e di farmi avere le seguenti note: leggendo i vari commenti, e esplorandoli, mi convinco che Menzogna e Sortilegio rappresenta l’idea dell’archetipo romanzo, dove favola, emozioni, stati d’animo fanno parte di uno schema poetico capace di condizionare i comportamenti.
                                                                                           

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