martedì 3 luglio 2012

Il Gruppo di Lettura BC su Oceano mare di A. Baricco

Due interessanti contributi di due componenti del Gruppo di Lettura BC sul libro (letto lo scorso maggio) Oceano mare di Alessandro Baricco:
  •  di  Maria Paola Bedini,  sulla scrittura di Baricco...
Quella di Alessandro Baricco in "Oceano mare" è una scrittura febbricitante, che a tratti assume i vezzi dei suoi personaggi, quasi a sottolinearne le caratteristiche abnormi per imporle alla nostra attenzione.Come quando, ad esempio, lascia i discorsi in bando, senza preoccuparsi di concluderli (abitudine, per latro, confrome a quella di molti parlanti reali e concreti!).
E' una scrittura ove il dialogo è sovente un continuo monologo e l'incoerenza coerente giustapposizione di impressioni ed immagini diverse, anzi, persino contrastanti, ma ppunto perciò compresenti.
Una scrittura che proprio per tali vie, liquide e fluttuanti, intimamente marine, riesce ad esprimere l'inesprimibile, ossia il torbido estuare delle nostre menti.
E l'Oceano mare siamo noi, con i nostri flutti e le nostre maree, i nostri abissi e i nostri approdi, le nostre quieti e le nostre tempeste, le nostre lucidi analisi e i nostri deliri.

  • di Paolo Pedrazzoli, pensieri e suggestioni liberamente tratti dalla lettura del libro,  sussurrati e proposti, quasi in forma di personale esercitazione e di dialogo, nell’intento di suscitare altri pensieri e altre fantasticherie...
 Un Romanzo che, per dirla franca mi è piaciuto: da subito si annuncia brillante, fonte di continue sorprese, capace di coinvolgere e trascinare nel regno della fantasia, là dove ogni divagazione sembra tradursi in possibilità. Suggestiona, avvince, sollecita l’immaginazione, accompagna nei sogni, conquista con l’affabulazione. Personalissimo esercizio di estetica letteraria, lirico, supera talora ogni attesa del bello. Sensibile, raffinato e penetrante, propone personaggi ambigui, vite di esseri comuni e straordinari, dei quali presenta sofisticati dettagli, narra sorprendenti peripezie alludendo all’umana complessità. Trasferisce il lettore in uno spazio incerto, intensamente metafisico, dalle tante valenze interpretative. Per questa strada, via via la leggerezza e l’idillio sono costretti a confrontarsi con l’incertezza, con l’ambivalenza e con il dolore, per raccogliersi infine attorno ai diversi volti della tragicità.


 Un libro la cui lettura non lascia un attimo di tregua. Di non facile approccio per le forme inusuali e incostanti del procedere, esige concentrazione e obbliga a qualche fatica per entrare nello stile personalissimo del suo Autore, ma via via stupisce e intriga per la bellezza e il ritmo; affascina e conduce in una danza. Provocante e seduttivo, sembra voler mascherare anziché rendere più esplicite le sue proposte contenutistiche. Le quali mi paiono di grande spessore: tematiche talvolta insopportabilmente vicine e angoscianti. Insieme romanzo dotato di musicalità (a qualcuno ricorda lo stile di Mozart, a me fa pensare ai richiami della natura di Debussy), ricco di rimandi ad altre opere (letterarie, poetiche, pittoriche…), denso di contenuti, abile nel sollevare interrogativi costringe a muoversi tra tante e opposte valenze, porta a scavare dentro di sé. Una lettura che ricompensa - soprattutto chi vorrà provare a riflettere (o anche a giocare) attorno alle inquietudini, alle bizzarrie, alle tragedie, alle profonde conflittualità, alle incertezze e alle sorprese che ci riservano l’Arte e l’umana esistenza, l’Animo nostro.

La trama. Ha una trama? Diverse storie s’intrecciano nei dipressi del mare, ognuna delle quali recando con sé incanto e mistero, poesia e tragedia. Si narra di una umanità bisognosa di relazioni, talora regressivamente fusa in un solidale grido di disperazione, crudele o, forse, saldata dal bisogno di trascendersi. Si tratta di adulti che non conoscono veramente ciò di cui hanno necessità, perché troppo incentrati su di sé, sui propri miti, o sui propri superficiali personaggi; adulti che non sono veramente ancora tali, o non lo diverranno mai. Ciascuno di essi si ritrova a comporre un inverosimile puzzle di soggetti che, in qualche modo, ha a che fare con il mare. Ma quant’è vago quel confine tra mare e terra, quel luogo dove l’onda s’infrange, ogni volta in modo e con disegno inesplicabile! Taluno dei protagonisti non ha avuto rapporti con il mare, talaltro credeva di poterlo già conoscere; chi ci arriva per caso, chi per progetto, chi sospinto da un destino imperscrutabile. Questo mare diviene sempre più misterioso, amorfo, sfuggente; imprendibile perché troppo incerto e troppo mobile; indescrivibile perché informe e sterminato; inqualificabile perché troppo concreto e sideralmente astratto. Il mare, l’oceano, l’oceano mare…più ci si sforza di rappresentarlo, più lo si studia e più lo si vive più esso si sottrae. O costringe a fuggirne. Tutti si trovano legati a esso, ma non hanno l’interesse né la voglia di chiedersi i perché; o non trovano le ragioni e l’ardire di uscire da se stessi per dare senso all’esperienza che il mare suggerisce: l’esperienza dell’autenticità, del conoscere profondo, spregiudicato, libero da incanti. Nelle trame del racconto emergono i diversi modi del conoscere il mare o di quel che esso sembra rappresentare: ora attraverso l’esperienza più epidermica –la semplice, sensoriale, passiva o svogliata ricezione dell’elemento naturale- ora in una più totalizzante, coinvolgente fusione con esso (esperienza carnale, emotiva e eidetica in un sol tempo), sin troppo precisa, urticante, fondativa. Si direbbe che codesti secondi conoscitori, attraverso il mare, siano entrati direttamente nel pieno della vita ed abbiano affrontato, svelandola, la “verità”. Si tratta di una verità tragica e ancora opaca, che essi chiamano bellezza, orrore, inferno e dalla quale non potranno più prescindere; una verità che porta a giudicare l’uomo stesso. Qualcuno si lascia sedurre, altri fugge di fronte all’infinito mistero del mare, dove “tutto è fermo un passo al di qua delle cose”, altri s’interroga sull’esistenza di Dio. Ciascuno, alla fine, se ne va col proprio fardello; diverso da prima (ma quanto diverso?).
  
 Vi è una forte contrapposizione tra le parti del romanzo, ma forse è solo apparenza. Da un lato personaggi rarefatti, vite sospese, storie poco sottolineate –tali da presentarsi quasi inconsistenti, fuori dallo spazio e dal tempo- storie, diremmo da favola. Pagine che si prestano a essere lette con gusto, la cui musicalità, la cui bellezza estetica, ammiccante, promettente cela le ambiguità e pochissimo lascia trasparire la prospettiva ansiogena, la possibile dolorosa identificazione. All’opposto altrove, dove ogni velo con grande spietatezza viene a cadere, e produce sorpresa e poi inquietudine e inferisce dolore profondo. Si narrano fatti verosimili (autentici!), la cui realistica rappresentazione sprizza dalla pagina e ci intriga, tanto più quanto più s’avvicina al regno del nostro possibile concreto. Pagine dette per essere vissute, consumate tra immagini d’orrori sin troppo credibili, sin troppo veritieri. Si narra di un’umanità che non trova scampo da se stessa, si affronta per dilaniarsi, si lacera, fa scempio della propria carne, si nutre della propria decomposizione, sino a morirne: tutti vittime, tutti sicari, uniti e divisi nella passione, nella follia, nell’amoralità, nell’insensatezza dell’essere.
 Così, se da un lato le umane mistificazioni, i mascheramenti, le povere bugie, i più cinici espedienti sembrano proporsi quali pietosi guardiani di un’umanità dolente e possono dalla fragilità umana giustificare la loro esistenza -chi trascorre la vita sognando di arrivare a dipingere il mare, chi s’illude di poter espiare una colpa, chi s’allontana da sé nella ricerca vana di una legge scientifica, chi incurante della propria inconsistenza culla la bellezza della propria immagine fisica, chi sogna segretamente le nudità di una donna, chi uomo fa uso d’altro uomo per il proprio piacere o per la propria sussistenza o per la propria smisurata passione - d’altro lato tradiscono essi medesimi la precarietà della loro stessa funzione, sopraffatti dalla potenza del cruccio, dell’incubo, dell’angoscia -così nascosti, così presenti, così connaturati con l’essere umano, così spietati. Qualunque difesa si rivela insicura, qualsivoglia espediente reca con sé una doppia natura, ogni sogno può  alludere alle certezze del male, alla forza tenebrosa del destino, all’errore dell’umana presenza –estraneità incomprensibile dentro un’incomparabile natura.

 Accenno brevemente qualche idea suggerita dai personaggi. Alcuni apparentemente ordinari, nessuno per la verità lo è. Plasson: pittore di chiara fama; un poco mattacchione, molto originale, si stanca di produrre ritratti per l’opaco piacere dei committenti. Prova a portare sulla tela il Mare, ma questa –chissà per qual motivo- non si rivela impresa facile; proprio no. Nonostante egli cerchi di penetrare la sostanza marina, entrandoci fisicamente e addirittura sostando tra le onde per ore, sulla sua tela non si deposita alcuna pur piccola pennellata. Mi domando: è possibile che il Maestro non sappia rappresentare il Mare? Abituato a dare avvio alle sue costruzioni a partire –lui dice!- dagli occhi del soggetto, ora si trova spiazzato: dove sono gli occhi del mare? Dall’innocenza onnisciente riceve una risposta, carica di fascino: “sono le navi…non lo sai?!”. Sarà davvero questo? Sarà proprio l’Artista a difettare dell’uso degli occhi, o non sarò, viceversa, io Lettore? Chi veramente manca del talento di leggere con gli occhi della mente dentro quel vuoto apparente delle tele? La sua o la mia mente ha perso la capacità di dare un senso alle cose? Le sue tele vuote restano davvero cieche e mute? O non mostrano forse un paradosso? Non s’incaricano forse esse di svolgere qualcuna delle funzioni proprie di quell’irraggiungibile soggetto, il Mare? Ho scordato che “l’Arte non è effusione lirica, è problema”? (Argan). Bartleboom è uno studioso votato alla ricerca, rigidino, formale, astratto e ingenuo; innamorato del perfetto Amore, che egli attende pazientemente e che un giorno (forse, non diciamo come) si presenterà. Nel frattempo la sua vita è dedicata alla ricerca delle forme e delle regole della Perfezione. Egli si cimenta nell’ardua impresa di compilare una “Enciclopedia dei Limiti”, individuando le concrete, tangibili e definitive demarcazioni della Natura. La sua avventura marina si dipana attraverso tale meticolosa (anch’essa appassionata), eccentrica ricerca di quell’onda che dovrebbe portarlo a individuare i segni distintivi, i confini ultimi, il finis terrae, le tangibili certificazioni della Natura: una ricerca, sostanzialmente la sua, poggiante su riposanti Certezze. Mi chiedo: sarà mai possibile; sarà mai auspicabile? Ann Deverià: presenza misteriosa e seducente. Predomina, nella sua vita, il gioco della Bellezza Estetica. Ho l’impressione che la sua bellezza, tuttavia, oltre a celare qualche segreto mascheri ambiguità, nasconda falle, induca a sospettare -aldilà di ogni giudizio di valore- l’inconsistenza del proprio Sé. Un personaggio, dunque, che tradisce le ragioni profonde di un’esistenza votata alla superficialità ed è condannato al continuo rimpianto: ragioni che alludono alla rinuncia della crescita e della faticosa costruzione nei valori, in cambio di un’ingannevole, regressiva, consumistica stagnazione nel primo Desiderio. Ann giunge -si direbbe inevitabile- all’intuizione manifesta e tardiva dell’inarrestabile scorrere del Tempo e dell’inesorabile svanire d’ogni traccia dell’umano passaggio. Sarà sacrificata, inconsapevole (colpevole forse di aver rinunciato alla faticosa lettura del mare?). Padre Pluche: un religioso, un tutore della Dottrina e un mentore. Egli è di natura schietta; e ciò gli è di sottile ostacolo nella quotidiana impresa d’esser dentro i ranghi, del dispensare sentenze, del restituire a sua volta –a coloro ai quali chiede- prova di rigore. Convive col proprio piccolo sogno che lo porta a “non dire mai la cosa che dovrebbe dire”, poiché “gliene viene in mente un’altra, un attimo prima è colto da un altro pensiero”. Anche per lui giunge il momento in cui l’avventura marina gioca degli scherzi, portandolo a confrontarsi con la propria doppiezza, con il proprio piccolo demone, e a vivere lo spaesamento generato dall’irrompere del Dubbio (quel granello che inceppa il meccanismo). Egli, formale propugnatore di Verità, si ritrova così obbligato ad affrontare il travaglio e le fatiche dell’Incertezza. Non ha l’ardire, padre Pluche di mettersi in pubblico ma, consegnandosi a un interno, diretto buon senso, abbozza un umile dialogo con Dio: un dialogo franco e appassionato, sofferto e per nulla arrogante, che lo porterà ad una personalissima, serena e riposante mediazione intellettuale dell’anima. In lui la modestia, la caparbietà, il tornaconto riescono a tradurre l’angoscia in pensiero umanissimo e fortunato: un pensiero genuino; magari un po’ gretto e utilitaristico, ma autocritico (a noi così piace pensarlo –forse sedotti dalla lirica delle sue preghiere poetiche).

 Altri personaggi ancora s’impongono, intrigano, presentando da subito notevole spessore e straordinarie credenziali; forse ancor maggiore complessità. Anche costoro riservano sorprese, conflitti, ambiguità, doppiezze; mostrano buone e cattive qualità personali, buone e pessime ragioni. Si tratta di Elisewin: un’adolescente per la quale il dottor Atterdel, uomo di Scienza, maestro dispensatore di “certezze”, formula la sua diagnosi  ed escogita la misteriosa “cura dell’onda”. Tale fanciulla, che “per dirla con termini esatti, è posseduta da una sensibilità d’animo incontrollabile”, ha forse vissuto esperienze penalizzanti. Forse porta dentro di sé storie tristi. Presenta profonde, aperte ferite. Certamente vive ripiegata su di sé e non si schiude pienamente alla vita (forse attraversa soltanto i conflitti, le contraddizioni, le comuni pene dell’adolescente?). Certamente si nutre dell’amore paterno che le viene riversato a piene mani, senza contropartita, da un padre premuroso, che non conosce tuttavia la Libertà. I doni, forse eccessivi, non aiutano, ahimé, codesta fanciulla. E non l’aiuteranno la Religione e la Scienza. Sarà piuttosto l’irrompere fortuito e fortunato di un intervento “terzo” a imprimere la necessaria spinta, a sciogliere l’abbraccio appassionato e ingenuamente egoistico, imprigionante del padre (padre che non ha conosciuto il Mare: “per il barone il mare era un’idea, anzi un percorso dell’immaginazione”). Un Mare che non può fare a meno di un marinaio: tale si presenta Thomas riemergendo dal ventre dell’Oceano-Mare. Dove ha conosciuto la passione, l’avventura, l’amore e soprattutto l’Orrore (sento l’accenno a Conrad). È un uomo “passato dall’inferno”, dolente, prossimo all’esplosione psichica, che torna ora con un nuovo nome -Adams- per affermare che “coloro che sono sopravvissuti a quei fatti” sanno ora la Verità (tutta la verità sull’Uomo). Una verità che in tale modo si svela, a qualificare quella “minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata”: l’Uomo. Quest’Uomo “salvifico granello che inceppa il meccanismo di quel paradiso”, è ora annichilito e tragicamente “inconsolabile” (!) al cospetto di se stesso. Effettivamente, questo Adams, non appare personaggio comune; no, certamente. Egli, tutt’altro che fortunato sopravvissuto, è dantesco messaggero di profonde e terribili verità; denunciate le altrui nefandezze, egli si candida (forse in nome di un personale concetto di Giustizia) ad atti di rinnovata violenza. Gode della fortuna e offre a sua volta all’Ammiraglio l’occasione fortunata di un incontro. L’Ammiraglio: un uomo navigato. Egli, persona riflessiva, cauta e di buon senso, vuole “salvare le storie” e sa che per averle deve salvare innanzitutto quest’Adams “devastato”. La sua equilibrata esperienza, la sua conoscenza e la temeraria fascinazione per la follia, la sua umanissima passione per la bellezza mitica e minacciosa della irraggiungibile Timbuctù (e delle velate donne di Timbuctù!) gli dicono come sottrarre gli uomini alla spersonalizzazione, al delirio, allo sconquasso del vissuto che li disumanizza. La sua fiducia e la sua capacità di avventurarsi nella suggestione -arrischiando qualcosa- gli apriranno la strada per la realizzazione di una surreale quanto decisiva, telepatica, provvidenziale comunicazione con Adams. Un ultimo personaggio: Savigny, uomo di mare e d’intrigo, passato anch’esso more ferarum (demone…), attraverso il dramma della distruzione, della sopraffazione, dell’orrore, attraverso il gelo dell’apatia e dentro la morte morale, segna forse l’apoteosi del dramma, del dolore, dello sgomento, dell’umano cinismo. Anch’esso, ponendoci di fronte ad alcune crude verità sulla Natura, interrogandoci sul Destino, mostrandoci –inesorabile- anche le diverse (s)composizioni dell’Essere Umano (non viene in mente il “ritratto di Ambroise Vollard”?), sembra voler stigmatizzare ogni semplificazione ed ogni approssimativo giudizio, ogni facilona, arbitraria e interessata attribuzione di valore.
           
 Ancora. Un posto a parte meriterebbero i personaggi “bambini” che l’Autore distribuisce qua e là, assegnando loro ora il ruolo di Folletti, ora -inequivocabile- di Grandi Sapienti: Dood, quello che compare e scompare dal davanzale; Ditz, quello che suggerisce con i sogni i percorsi più intimi dell’animo; Dol, che ben sa dove sono “gli occhi del mare”; Dira, la locandiera più acuta donna/bambina di sempre; infine la “bambina bellissima” –sorta di angelo custode- che incarna e perpetua il Desiderio che non ha nome e non tiene a crescere. Anch’essi tanto veri e tanto irreali quanto lo sono le proiezioni, i sogni, i miti, le fantasticherie, le ideologie, i dogmi degli adulti. Tanto più accattivanti e inquietanti, quanto meglio sono rappresentati nelle parole, nelle grida, nelle immagini, così evocatrici e suggestive dei vati, dei veggenti, degli artisti, dei folli.  Nascosti dentro ognuno di noi. Forse i bambini sono i veri protagonisti del romanzo? Possono essi rappresentare la risposta vera alla nostra ingenua ricerca? O si prestano essi stessi a una ennesima mistificazione? Esseri disincantati, coscienti, capaci di penetrare sino in fondo la realtà. Esseri pratici. Bambini/adulti; capaci di essere giudici, maestri e tutori di un eterogeneo gruppo di adulti/bambini. I bambini –si sa- non subiscono condizionamenti, possono guardare direttamente le cose, con i loro occhi puri, per cogliervi una verità non ambigua, diretta. Possono insegnare agli adulti, prenderli per mano, aprire loro lo sguardo, forse salvarli. E’ proprio così? O forse nemmeno l’animo infantile, a sua volta ingenuo, a sua volta stupido ed egoista, a sua volta incompleto e bisognoso può indicarci la via della verità? Silenziosi osservatori, onnipresenti, onniscienti, suggeritori di sogni eversivi, forse i bambini –la persistenza in noi del loro animo infantile- possono trascinarci nel nulla… là dove la locanda Almayer “staccatasi da terra e fattasi leggera in mille pezzi, che sembrano vele, e salgono nell’aria, e scendono, e volano…tutto portando con sé” si disperde.
        
Che dire della sua storia ? che dire dell’intera nostra Storia? Non ci si può fermare alle apparenze, e neppure scegliere ciò che piace, sognare i sogni migliori, costruirsi una vita a prescindere da quella degli altri. Non si può tagliare la fune che ci unisce alla zattera infelice. Forse dovremmo riconoscerci nei tratti di codesti personaggi? Forse dovremmo cominciare a pensare e a lavorare partendo da noi stessi?. Un noi stessi non più unitario, granitico, ma bensì composito, articolato, incostante, insicuro. Un Sé tendenzialmente disidentitario, sempre prossimo alla frammentazione.
Che cosa si può conoscere? A quale verità credere? A chi affidarsi? Cos’è questo mare? Può esso salvarci?
Cosa rappresenta quel luogo non ancora sistemato nella “Enciclopedia dei limiti riscontrabili in natura…”?. Se una Verità esiste, essa certamente allude ai “limiti delle umane facoltà”, alla profondità insondabile degli umani bisogni, all’impotenza (e in taluni casi all’inconsistenza) e all’indegnità dell’essere. Forse spinge verso un miglioramento, una crescita?
                                                                                                                 
 Nella mitologia greca il Mare assumeva un aspetto inafferrabile e vario (proteiforme) e, nella sua infinità, era depositario di un sapere sovrannaturale. 
 Agli inizi della filosofia occidentale, Talete di Mileto (VII° sec. A.C.) individuò proprio nell’acqua il principio di tutte le cose, l’acqua si carica anche di un simbolismo che ne fa  il confine tra la vita e la morte (il mondo non conosciuto, che incombeva all'orizzonte), tra la creazione e il nulla (la terra e gli abissi inesplorati) e per questo molte culture antiche pongono l'acqua a separazione del mondo dei vivi da quello dei defunti.
 Nell’iconografia cristiana l’acqua svolge in prevalenza la funzione di elemento purificatore che nel battesimo lava la macchia del peccato. L’acqua battesimale, con valore di sacramento, deve lavare tutte le colpe ereditate dagli avi e operare una “rinascita dall’acqua”. I bagni rituali sono noti anche a molte culture antiche, non solo per ragioni igieniche, ma anche per la loro utilità ai fini della purificazione simbolica. 
Infiniti sono gli usi figurati di mare: in Dante ricorre con grande frequenza: ad esempio quale luogo di raccolta della volontà di Dio, quale luogo di viaggi pericolosi, etc
Come simbolo psicologico, l’acqua (il mare) popolata di esseri misteriosi è simbolo degli strati profondi e inconsapevoli della personalità. Come simbolo elementare ha un significato ambivalente (conflittuale), perché da un lato dà la vita e rende fertile, ma dall’altro allude all’affondamento e al declino. L’acqua è considerata anche simbolo fondamentale di ogni energia inconscia. Il significato del mare nei sogni viene collegato a quello della madre come fonte di vita e nutrimento, un “brodo primordiale” nel quale l’esistenza si crea e si rinnova.
(“Simboli”, in l’Universale – La grande enciclopedia tematica- n.34. Garzanti, milano, 2003-2004)
(Dizionario Enciclopedico Italiano, Treccani)
(vedi anche con Google: “il mare nei sogni”)

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